Ancora un fotografo nel nostro spazio Vis-à-vis. Stavolta siamo a Genova dove vive e lavora Andrea Bosio. Gli studi in architettura lo hanno indotto a considerare il mezzo fotografico come strumento di indagine attraverso cui spingere il proprio sguardo verso quanto si trova ai margini della realtà e della società. Architetture e paesaggi urbani diventano la quinta di insediamenti rom, cantieri edili abbandonati, accampamenti di senzatetto che diventano, negli scatti di Andrea, spunti di riflessione, frame cinematografici, assumendo un plusvalore estetico, accentuato dalla pulizia delle immagini, realizzate prevalentemente con l’uso del banco ottico.
Chi è Andrea Bosio? Dove e quando è nato? E dove si trova ora?
Sono nato nel 1980 a Genova, dove mi sono laureato in architettura con una tesi sullo spazio pubblico, il suo ruolo nella società contemporanea e la sua rappresentazione in fotografia.
Qual è stata la tua formazione e come ti sei avvicinato alla fotografia? Qual è il suo ruolo nella tua vita?
Come chiunque ho smanettato con le macchine fotografiche di mio padre fin da ragazzino. Ma solo durante gli anni in facoltà ed in particolare nell’anno che ho passato a Lione presso l’Ecole d’ Architecture ho cominciato a vedere la fotografia come un vero strumento di indagine, qualcosa che potevo usare non solo per fermare la realtà ma anche per criticarla e analizzarla. Ho cominciato a vedere possibili temi su cui poter basare le mie uscite fotografiche fino ad allora all’insegna della sperimentazione, sia tecnica che di scelta del soggetto. La fotografia fa parte del mio lessico. Una parte di cose che vedo e sento le dico per immagini, non vedrei altra maniera. Attualmente lavoro con alcuni studi di architettura come fotografo.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Chi i tuoi maestri?
Il primo che mi viene in mente, ma perchè è entrato nella mia vita di recente con una serie di strane coincidenze è Hopper, il pittore sì. Lui era un super visivo esteta della composizione. Luci, colori, ombre e geometria dominano le sue opere, paesaggi da contemplare, situazioni da assaporare. Un grande.
Poi sicuramente metto Ghirri e Basilico, due maestri fotografi. Basilico per la tematica della città che trovo molto vicina ad alcuni miei lavori e Ghirri soprattutto per la poetica dei cromatismi e delle atmosfere che era in grado di rappresentare. Per andare un po’ all’estero Avedon per i suoi reportage di ritratti di gente comune.
Quale messaggio vuoi comunicare attraverso le tue immagini?
Non so bene se voglio comunicare qualcosa, me lo chiedono in tanti. Io solitamente rispondo “quello che chi guarda riesce a proprio modo a percepire”. In effetti considero la fotografia più come uno spunto di pensiero da offrire a chi la guarda, come se fosse un ritaglio di realtà che come sappiamo è intrisa del fattore tempo. Un frame di un film, con un dopo ed un prima. Credo nella fotografia contemplativa. Questo lo dico sia come fotografo che come osservatore.
Questo è il mio territorio.
Descrivi il tuo lavoro. Quali macchine fotografiche usi? Tra analogico e digitale cosa scegli?
Ultimamente anche per lavoro mi sono buttato sul grande formato, utilizzo un banco ottico a lastre negative 10×12. L’ho scelto per l’elevata precisione nella restituzione della realtà su tutti i fronti: livello di dettaglio, precisione geometrica e cromatica. Per essere leggero uso una Hasselblad a negativi 6×6 e una macchina digitale.
Quanto tempo passa dall’ideazione alla realizzazione di una delle tue fotografie? Ragioni per serie, come quelle in cui sono divise le tue foto all’interno del tuo sito, o per singoli scatti?
Il più delle volte il tutto parte da una idea progettuale, quindi quasi da subito cerco di tirare fuori almeno su carta una serie. Ci sono altre fotografie come quelle che nel mio sito sono contenute nella sessione “urban scapes” che raccolgo in giro quando viaggio. Sono semplicemente correlate da una tematica comune: quella del rapporto dell’uomo con la città.
Ti muovi tra la fotografia di architettura e i paesaggi urbani, passando per ciò che generalmente è il non-visto, il lato nascosto o volutamente dimenticato dell’urbanizzazione (rifiuti, senzatetto, insediamenti rom, edifici in abbandono). Cosa guida le tue scelte?
Solitamente parlo di città fatte di luoghi e di persone. Prediligo quegli spazi ai margini della metropoli, quelle zone e quelle persone che in qualche modo esistono a partire da situazioni di “informalità”. Mi spiego, da buon architetto. La città ha una sua configurazione morfologica fatta di uno strato geologico dato a cui si adatta. A questo layer se ne sovrappongono altri; edifici, strade, spazi pubblici, sistemi di trasporto etc. Tutto ciò è frutto per lo più di una progettazione urbanistica organizzata e definita. La sovrapposizione di tutti questi livelli crea la città, ma lascia spicchi di irregolarità, spazi che sfuggono al controllo civico e agli sguardi dei più. Questo è il mio territorio.
Quando vado in una città nuova, con l’aiuto di Google Earth o robe simili, organizzo le mie uscite incentrando l’attenzione su quello che non è più o non è ancora città, so che lì qualcosa mi sorprenderà. Difficilmente mi dedico ai monumenti. Trovo assai più affascinante e carica di significato una vecchia fabbrica abbandonata dove per entrare non c’è un biglietto ma un cancello da scavalcare, dove all’interno non ci sono turisti ma solo i sensi che mi guidano nell’esplorazione.
La città e le relazioni sociali. La prima, spesso, ostacola le seconde. Scelte urbanistiche sbagliate finalizzate al contenimento e alla funzionalità piuttosto che all’incontro e alla crescita umana e sociale. Esiste una soluzione?
Qui si apre un dibattito a forma di gatto che si morde la coda. È strano, penso che in realtà ci siano responsabilità da entrambe le parti. Un po’ la città non offre, un po’ il cittadino non chiede. Sono dell’idea, comunque sia, che se l’architettura fosse fatta un po’ più a partire dalle persone e dalle relative relazioni che tra loro intercorrono, la città sarebbe sicuramente ben più vivibile e di conseguenza più vissuta. Il nuovo oggi è intriso di interessi economici e politici che vedono il singolo solo come un vettore di denaro, privato della sua facoltà di ragionamento. Tutto è precotto, i gusti sono omogeneizzati e fanno schifo.
Ritieni che sia dato sufficiente spazio agli artisti nei canali istituzionali? Come ritieni che si possano superare i limiti dell’arte ufficiale?
Ho avuto esperienze di residenza all’estero in Francia e in Germania, qui in Italia siamo anni indietro. A Genova non esistono strutture per artisti ospiti, laboratori o cose simili. Le istituzioni sembrano non avere soldi per fare niente, poi fanno una notte bianca con cifre da capogiro, che ci sta, sia chiaro, ma preferirei vedere un fermento costante piuttosto che delle esplosioni annuali anche un po’ banalotte. A parte tutto, per fare un quadro sincero, devo dire che qualcosa si sta smuovendo sia in ambito creativo che in ambito di appoggio istituzionale.
Quali sono i tuoi prossimi impegni e progetti?
Prossimo progetto, nel cassetto da tempo, è un lavoro sulla via in cui abito. È fatta di una strada e due edifici, persone di diversa estrazione sociale, frequentata di notte da trans e relativi clienti e di giorno da pensionati benestanti che portano in giro il loro cagnolino. Un melting pot condensato in cui vivo anche io. Mi incuriosisce.