Il Vis-à-vis di oggi ha per protagonista Pierluigi Riccio, art director di professione, molisano di origine ma, dopo vari spostamenti, trapiantato a Roma. Si è accostato alla fotografia molto presto e oggi predilige i tempi lenti di una medio formato come la Hasselblad. Diverse le fonti di ispirazione dei suoi scatti meditati, ciascuno dei quali non è che un tentativo, innato nell’uomo, di rispondere sempre alle stesse domande, talvolta sbagliate. Per spiegare lo spirito delle sue fotografie servono poche parole, le stesse che ha usato lui: “solitario e distante, composto e ignoto, possibile”.
Chi è Pierluigi Riccio? Dove e quando è nato? E dove si trova ora?
Sono un art director, lavoro in un agenzia pubblicitaria, produco rumore e la fotografia è la mia redenzione. Sono nato nel 1975, ho vissuto a Isernia dove ho cominciato ad usare la macchina fotografica, poi c’è stata Napoli dove ho iniziato a studiare la filosofia, Bologna dove ho conosciuto mia moglie e da dieci anni vivo a Roma dove tra poco meno di un mese nascerà mio figlio.
Mi sono avvicinato alla fotografia nel 1989, era appena crollato il muro di Berlino, un giorno ho incontrato un gruppo di polacchi, portavano con loro cimeli di un mondo perduto e un freddo e malinconico esotismo d’oltre cortina, oltre ad una Zenit 122, la mia prima macchina fotografica. Ho cominciato ad andare in bicicletta e a fotografare quello che i miei occhi ritenevano interessante, con un gruppo di amici stampavamo le foto usando un vecchio ingranditore, con il tempo poi fotografare è diventato una sorta di punteggiatura dei giorni.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Chi i tuoi maestri?
La luce che redime, i film di Tarkovsky, Sara, mia moglie, i libri di Boris Vian, Sunny, il mio cane che mi appare nei sogni e mi parla, la campagna, gli sporchi controluce di John Cassavetes; le foto il più delle volte sono un’intuizione, una scommessa degli occhi sulla mente.
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